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Viktor Durasovic, il Cavaliere Solitario

Mai oltre il numero 298 ATP, Viktor Durasovic gioca uno splendido match ed elimina Brancaccio. Da due anni è senza coach e viaggia quasi sempre da solo. “La parte più dura è non avere nessuno che ti incita”

So long ago”. Tanto tempo fa. Quando Viktor Durasovic pronuncia questa frase, gli brillano gli occhi di commozione. Gli avevamo appena ricordato i suoi (ottimi) risultati a livello junior, quando giunse al terzo turno a Wimbledon e in semifinale allo Us Open di doppio. “A volte i sogni e la realtà sono cose diverse” aggiunge il norvegese di origine balcanica, una sorta di Cavaliere Solitario del tennis contemporaneo. È raro, rarissimo, che nel 2022 un professionista sia senza coach. Dopo diversi anni trascorsi in Spagna, Durasovic è tornato in Norvegia e da allora non è seguito da nessuno “nell’80-90% dei tornei”. Difficile riuscire ad emergere, ma lui ci prova ugualmente. All’ASPRIA Tennis Cup – Trofeo BCS (45.730$, terra battuta) ha raggiunto i quarti di finale. È la quinta volta in un torneo di questo livello: nelle precedenti quattro si è fermato qui per tre volte, mentre a Portorose 2019 si spinse in finale. Per lui, dunque, non è un traguardo banale. Lo ha fatto battendo Raul Brancaccio in rimonta, proprio come aveva fatto al primo turno contro Georgii Kravchenko. È finita 4-6 6-1 6-3: dopo un primo set con troppi errori, ha iniziato a spingere duro con il dritto e ha sempre fatto gara di testa. Il campano ha provato a tenergli testa fino alla fine, ma la differenza tra i due in termini di pesantezza di palla – almeno oggi – era notevole. “Sono partito troppo piano, non avevo la giusta energia – dice Durasovic – poi ho iniziato ad essere paziente. Le chiavi sono state due: lui non riusciva ad attaccarmi troppo perché non serviva così bene come nel primo set, mentre io ho trovato la giusta pazienza e tiravo un buon numero di colpi prima di spingere”. Nei quarti sfiderà un altro azzurro, il rampante Francesco Passaro che in pochi mesi ha già migliorato il best ranking di Durasovic (n.298, oggi è 315).

ORIGINI BALCANICHE

Dopo il match di oggi, in tutta onestà, è difficile credere che Durasovic non sia stato in grado di salire più in alto di così. “Molti giocatori possono giocare bene, ma ciò che conta non è un singolo match – dice Durasovic, con lo sguardo un po’ triste mentre addenta un panino: avendo giocato alle 13, è il suo pranzo-spuntino – bensì quante partite puoi vincere di fila, e quante volte vinci senza giocare bene. C’è un mix di tante cose a rendere forte un tennista. A volte sono stato sfortunato, altre non sono stato mentalmente forte per tutta la settimana. Soltanto una volta sono andato vicino a vincere un Challenger. È questione di solidità, soltanto adesso sto mettendo tutto insieme. Forse è un po’ tardi, ma adesso sto facendo le cose per bene. Vorrei raggiungere una classifica tale da poter giocare costantemente nel tabellone principale dei Challenger, in modo da avere una nuova chance ogni settimana. Nei Challenger si può crescere, giochi tante partite ad alti livelli, mentre quando ti alleni a casa le condizioni sono molto diverse”. Lui è nato ad Orkdal, nei pressi di Trondheim, ma i suoi genitori sono fuggiti dall’ex Jugoslavia per scappare dalla Guerra dei Balcani, nei primi anni ’90. “Onestamente non so perché hanno scelto proprio la Norvegia – dice lui, che però tiene a precisare – la città da cui provengono si trova in territorio bosniaco, ma è una zona in cui si segue soprattutto la cultura e la tradizione serba. Mia nonna era cattolica, noi non siamo super religiosi… diciamo che è un mix”. Non ci sono solo i Balcani e la Norvegia nella vita di Durasovic, ma anche la Spagna. Ci si è trasferito da adolescente, attratto dalla Mecca del tennis europeo, ma poco prima della pandemia ha scelto di tornare in Norvegia.

MALEDETTA SOLITUDINE

Da allora sono da solo, ma negli ultimi sei mesi la federtennis norvegese mi dà una mano. A volte un coach federale mi segue nei tornei, ma il più delle volte sono da solo”. Può capitare che un tennista viaggi da solo, ma ha comunque uno staff con sé. Più rara la situazione di Durasovic, che in carriera ha battuto un paio di top-100 (Hurkacz nel 2018 e Andujar lo scorso gennaio). E allora gli chiediamo quanto sia difficile viaggiare continuamente in solitudine. “Dopo un po’ ti abitui, ma non è facile. Ogni singola cosa è più complicata, ma il tennis non è per chi vuole una vita facile. La cosa più complicata è credere in te stesso: non c’è nessuno che ti spinge, nessuno che ti dice “Let’s go!” quando giochi. È davvero dura. Ma c’è un altro lato della medaglia: se riesci ad andare avanti, trovi qualcosa di extra che non tutti hanno. Sarebbe bello poter investire su un coach e un preparatore atletico, ma è dura. Quando sono a casa la federazione mi dà una mano, ma è sempre molto difficile”. C’è un po’ di disincanto, nelle parole e – soprattutto – nello sguardo di Viktor Durasovic. La malinconia diventa enorme quando gli chiediamo un obiettivo e un sogno per il resto della sua carriera. Prima sorride, poi risponde solo alla prima domanda. “A breve termine avrei il traguardo di giocare uno Slam. Il tabellone principale sarebbe fantastico, ma anche nelle qualificazioni andrebbe bene. Li ho giocati solo da junior”. E da lì nasce il “So long ago” di inizio articolo. “Se avessi la chance di giocare uno Slam sarebbe molto bello. Da giovane avevo tante speranze, ma a volte realtà e sogni sono cose diverse. Se riuscissi a giocare almeno uno Slam nella mia carriera sarebbe un grande ricordo. Vedremo come andrà”. Lo dice con uno sguardo tale che viene da augurargli tutto il bene del mondo.

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